La nave ai confini del mondo

vlora

Vlora, Durazzo, sono le scritte sulla poppa. È una nave mercantile, partita dall’Albania il giorno prima. Ma quando arriva al porto di Bari, l’8 agosto 1991, non porta mercanzia, a meno che non si vogliano considerare merci ventimila esseri viventi. Sono uomini, donne, bambini. Molti di più gli uomini: magri, vestiti come noi vent’anni prima. Sembra di rivedere un film di Pasolini: Accattone, Mamma Roma o La ricotta. Sono chiusi nelle stive della nave, accalcati sul ponte, appesi alle travi delle alberature. Un grappolo umano di ventimila acini. Un grappolo umano, tenuto insieme dalla forza della disperazione, della volontà, dalla mano di un Dio misericordioso.

Da vedere in TV fu una cosa spaventosa, e non uso l’aggettivo a sproposito. Fa spavento vedere ventimila persone accalcate su una fasulla isola di ferro. Fa spavento vederli tuffare in mare per raggiungere la riva, sbarcare sul molo. Fa spavento vederli rinchiusi in uno stadio di calcio. Perché questo accadde: gli sbarcati, non sapendo dove metterli, furono portati nello stadio di Bari, e molti vi restarono per giorni. Sembrava di rivivere l’incubo cileno, con i nemici di Pinochet rinchiusi negli stadi come bestie al Colosseo. Scoppiarono risse. Un giornalista celebre si aggirava all’esterno delle gradinate domandando se dentro ci fossero morti. La polizia gettava il cibo con gli elicotteri.

Molti di loro, buttatisi dalla murata della nave o sfuggiti ai controlli, si dispersero per la città. Guardavano le vetrine dei negozi incapaci di credere a quel che vedevano: cibo, soprattutto. Un altro aggettivo che non mi vergogno di usare è biblico. Fu un episodio biblico, con tutto ciò che questo aggettivo lascia intendere. Molti di quegli uomini furono fatti salire, più o meno con l’inganno, su aerei militari e rimpatriati con un paio di jeans, una camicia e cinquantamila lire. Per tradire la loro fiducia, fummo così meschini e vili che non ce la sentimmo di ammansirli con trenta denari.

La porta

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Cerco di immaginare come mi apparirebbe il mondo se fossi una porta o l’anta di un armadio. La porta di una camera da letto, per esempio. Vedrei persone entrare e spogliarsi. Sdraiarsi per dormire o far l’amore. Restare al buio, immobili, per ore. Poi alzarsi. Rivestirsi. Andare via. Non avrei alcuna idea del mondo esterno. Ignorerei l’esistenza delle strade. Delle automobili. Dei dirigibili. Ignorerei la nebbia. L’odore saturo delle friggitorie. I pesci pilota abbarbicati ai fianchi degli squali. Il vento. L’aria incerta del tramonto. Il raggio verde. Se però fossi una porta esterna, ignorerei il calore delle stanze. I giochi dei bambini la domenica. I baci dati in cucina. Le parole tenere. Il profumo della biancheria appena stirata. L’odore del bucato tolto dalla lavatrice. Il fischio del bollitore. La dolcezza del caffè dentro la moka. Per conoscere un po’ di entrambi i mondi, dovrei essere l’anta di un armadio. Chiudermi sull’alfabeto dei risvolti. Saper leggere l’ordito di una giacca. La trama consumata di un cappotto.

Nota. Questo racconto risale a tre anni fa. Me ne sono ricordato leggendo il bel pezzo di Enrico Prada: 

https://lavaligiadivangogh.wordpress.com/2015/06/20/idea-per-un-esercizio-o-per-un-progetto/

Il paradosso di Mattia Sangermano

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Mattia Sangermano è il ragazzo divenuto celebre (la celebrità dei 15 minuti, quella profetizzata da Andy Warhol) per le dichiarazioni rilasciate al TG 4 il pomeriggio del primo maggio, dopo i fatti di Milano. Sangermano non è un Black Bloc, e non potrebbe neanche esserlo (i Black Bloc agiscono intelligentemente, e Sangermano non pare lo faccia), non è nemmeno un antagonista (gli antagonisti hanno delle idee, mentre Sangermano pare ragionare in base a un semplice schematismo dicotomico: «c’è bordello/non c’è bordello»), eppure, paradossalmente, è divenuto simbolo ed exemplum sia dei Black Bloc che degli antagonisti. Perché? Perché nella narrazione teppistica e propagandistica (quindi fascista) dei mezzi di comunicazione rispecchia perfettamente in sé l’immagine ideale e stereotipata dell’avversario. L’avversario è stupido, spesso brutto (pensiamo alla propaganda di guerra, che assimila i nemici a scimmie o altri animali ridicoli), parla a stento, non ha sfaccettature ma una sola e unica faccia (ovviamente negativa). È, grazie a tutte queste caratteristiche, antropologicamente inferiore all’uomo medio, il quale, vedendolo, capisce immediatamente che con lui è inutile (impossibile) qualunque confronto dialettico, se non quello bradburyano del «cerca e distruggi». Senza considerare che ciascuno ha, o immagina di avere, semplicemente l’avversario che si merita.

Canzone del maggio

maggio

Il 3 maggio 1968 cominciava il Maggio francese. Io c’ero, ma avevo cinque anni e ci capivo poco (non dico nulla, perché il nulla non esiste). Anche adesso, che di anni ne ho più di cinquanta, sinceramente ne capisco poco. I ragazzi scrivevano «Vietato vietare», Godard li filmava con la sua cinepresa, i poliziotti caricavano, le barricate crollavano, si disselciavano le strade e nelle aule della Sorbona si faceva l’amore. Forse è vero, come disse Pasolini, che gli studenti che lanciavano porfido erano solo piccolo-borghesi (Renzi, cercando la parafrasi, preferisce chiamarli figli di papà, come se lui fosse figlio di zio). Ma forse no, forse non lo erano. «Forse la giovinezza è solo questo/perenne amare i sensi e non pentirsi», scrive Sandro Penna. E allora quei ragazzi erano soltanto amanti, amanti che seguivano le regole, Amants réguliers, come nel film di Garrel: rivoluzionari senza rivoluzione, non sognatori, soltanto sognati. Ma l’ho già detto, ne capisco poco. E quel poco è seppellito a Wounded Knee.

L’equivoco della poesia

poesia

Oggi è la giornata mondiale della poesia. Perché? Perché non la giornata mondiale del teorema di Pitagora o della formula chimica dell’acqua? Che equivoco si nasconde dietro la poesia? Cos’è la poesia? Di sicuro non è “le poesie”. Benedetto Croce diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; da quell’età in poi, chi continua a scriverne o è un poeta o è un cretino. Ma non è vero: ci sono anche poeti cretini. La poesia non c’entra con l’intelligenza. Nemmeno con il bene. Forse con il bello: ma anche questo è dubbio. La poesia è un linguaggio. Non rende migliori. Neanche peggiori. I poeti, quelli che scrivono poesia, non poesie, non sono né meglio né peggio degli altri, sono solo Grandi scimmie che hanno preso un passaggio dall’immaginazione. I poeti sono egoisti, gretti, indifferenti, violenti. E anche il contrario. I poeti sono falsi, pavidi, viziosi. A volte no. Ma scrivono poesia. E attorno alla poesia c’è una superstizione. Non serve a nulla, ma si crede possa tutto. E che i poeti siano esseri divini, sciamani, sacerdoti. Idee da scimmia, pervertita da un pollice opponibile.

Un partigiano come presidente

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È stato il presidente più amato. Quello più popolare, soprattutto dopo Spagna ’82. È morto venticinque anni fa, il 24 febbraio 1990. Ed ora la sua casa natale, a Stella, vicino a Savona, cade a pezzi, o comunque versa in pessime condizioni. I simbolismi sono spezzo forzati, spesso retorici, spesso sbagliati. Eppure il fatto che la casa di Pertini stia per crollare non può non apparire metaforico. «Buongiorno, Italia, gli spaghetti al dente e un partigiano come Presidente…» cantava Toto Cutugno, aedo nazionalpopolare di una patria scomparsa. Oggi gli spaghetti sono scotti, nessuno augura più buongiorno e come Presidente abbiamo un (ex) democristiano. Le autoradio non esistono più, i canarini sopra la finestra sono scomparsi (o quasi), gli unici occhi di Maria sono quelli della De Filippi e anche Dio non si sente tanto bene. Stando così le cose lasciatemi cantare una canzone senza titolo, tanto pe’ cantà, pe’ fa quarche cosa. Non è gnente de straordinario, è robba der paese nostro, che se po’ cantà pure senza voce, basta ‘a salute. Quanno c’è ‘a salute c’è tutto. Basta ‘a salute e un par de scarpe nove, poi girà tutto er monno; e m’a accompagno da me. Ma guardate la foto qui sopra. Guardate il riflesso nel vetro. Non pare che il Presidente abbia ancora il fucile sulla spalla? Allora, forse, sì… buongiorno, Italia.

E Pippi Calzelunghe diventa nigger friendly

pippi

Era già successo a Mark Twain. Anni fa tutte le ricorrenze della parola nigger nel suo Huckleberry Finn furono emendate e sostituite con slave. Alla faccia della filologia e del contesto storico in cui l’opera era nata. Oggi tocca all’anarchica e scorrettissima Pippi: per ragioni di correttezza – politica, razziale, morale, educativa – il Re dei negri (che poi altri non è se non suo padre Efraim, pirata nei mari del Sud) diventa semplicemente il Re. Tutto per decisione della figlia di Astrid Lindgren, sicura che anche la madre (che pubblicò il romanzo nel ’45 e morì nel 2002) sarebbe d’accordo. Già, forse lei sì, ma la ribelle Pippi? Siamo sicuri che non avrebbe niente da ridire? Come minimo solleverebbe di peso i suoi censori – come usa fare con i due buffi poliziotti Kling e Klang o con Karsoon e Blum, i ladri che cercano senza fortuna di derubarla dei suoi misteriosi tesori – e li manderebbe di cuore a quel paese. Quale? Probabilmente quello dei negri.

Renzi, Brunetta e i sorci verdi

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Uno patetico, l’altro ridicolo. Patetico Brunetta, quando minaccia Renzi – e la sua maggioranza – di fargli vedere i sorci verdi. Ridicolo Renzi quando gli risponde – nel cuore della notte, concluso l’esame degli emendamenti – «abbraccio gufi e sorci verdi». Sconcertanti entrambi, se si considera che queste vette di alta dialettica politica vengono toccate attraverso scambi di messaggi su Twitter. Stando così le cose si impone una considerazione: perché tra le riforme costituzionali non includere quella fondamentale, cioè che gli articoli non possano superare i 140 caratteri (hashtag compresi)?

La patente, il saggio saudita e il fatti i cazzi tuoi

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Secondo uno storico saudita, sarebbe giusto non concedere la patente alle donne perché, se la loro macchina rimanesse in panne mentre viaggiano da una città ad un’altra, correrebbero il rischio di essere stuprate a bordo strada. L’immagine evocata è inquietante (bordi strada sauditi affollati di stupratori malcelati fra le dune e pronti a ghermire l’imprudente guidatrice), ma la logica è stringente e inoppugnabile. Come dire: non aprire una gioielleria perché potrebbero venirti a rapinare. Sento già le risate. Ma c’è poco da ridere, perché il ragionamento del saggio saudita è lo stesso che dà vita al tanto caro teorema nostrana del se l’è andata a cercare (perché aveva la gonna troppo corta, perché parlava troppo, perché aveva messo il naso in cose che non lo riguardavano), da cui discende, ineluttabilmente, il razziano corollario del fatti i cazzi tuoi. Come dire: da noi le donne la patente ce l’hanno, ma a bordo strada non sai mai cosa si celi.

Ipotermia

ipotermia

Ipotermia. I migranti ora muoiono così. Di freddo si moriva nel secolo scorso. Di freddo si moriva nelle fiabe, come la piccola fiammiferaia di Andersen. Di freddo si moriva quando ancora esisteva la morte, quella vera. Oggi nel linguaggio artificioso e artificiale dei telegiornali si muore d’ipotermia. Ipotermia è la parola ipocrita – per quanto sia “tecnicamente” esatta – con cui si reclude la morte, la materialità sporca e puzzolente e gonfia d’acqua della morte, in un recinto d’aridità pulita, da cui le sia impossibile fuggire. Morire d’ipotermia non è morire: è essere rinchiusi in un limbo linguistico, in una morte di cui si nega il senso, il peso, l’incombenza. Morire d’ipotermia è non essere vissuti. Ed è questo che quei morti non capiscono: che della loro morte non ci importa nulla, come non ci importava della loro vita.